GIUSEPPE
PUPPO, UNO SCRITTORE LUTULENTO
di
Teodoro Giùttari
In senso
proprio “lutulento” si dice di un luogo d’acqua fangosa e piena di piante di
loto.
L’immagine
del fango, composto di molti elementi torbidi, ma ingentilito dai fiori di loto,
ha suggerito il senso figurato di uno stile, di un’ispirazione contrastati e
oscuri, su cui spicca la bellezza e l’eleganza della verità, dell’intelligenza,
insomma: della poesia.
Per questo
stile, vengono in mente i nomi di Fedor Dostoewski, di Gunter Grass, anch’essi
nel novero dei narratori lutulenti, nei quali sono insiti anche l’impeto e la
furia, che in senso concreto sarebbero del fiume in piena, che porta nello
stagno il fango intriso di pepite d’oro e dei rizomi del loto.
Se l’uomo è
la sua scrittura, intesa come stile e contenuto, fra loro inscindibili, non si
può mai stabilire quanto questo uomo - scrittore sia impetuoso e furioso per sua
natura, e quanto invece l’impeto e la furia della sua scrittura siano ricerca
espressiva, tentativo di dire tutto, anche l’indicibile, insomma: arte.
Non si
tratta di attribuire ascendenze e parentele letterarie a buon mercato.
Ancora, per
esempio, se il continuo monologare dei personaggi, il loro esprimersi secondo il
flusso di coscienza, è stato utilizzato in sommo grado da Joyce, originale e
nuovo nel tono e nei modi è il saper cogliere da parte di Puppo i personaggi on
the road, sulla strada, anzi, sull’autostrada; come voci che parlano da sole, da
una profonda solitudine e da una sconfinata ribellione, senza che il lettore
sappia bene per pagine e pagine a chi appartengono.
L’incipit è
memorabile.
LEI ( solo
più tardi sapremo che si chiama Loredana ) nel dire tutto come per sfogo contro
un lui ( che solo più tardi sapremo che si chiama Gianni ) ci ha già comunicato
molto di sé, del suo carattere e di quello altrui.
Loredana è
stata una donna sfruttata e utilizzata, che non ha mai saputo o voluto imporre
la sua personalità e la sua volontà, e così gli altri hanno fatto strame dei
suoi sogni e dei suoi sentimenti.
E’ un
personaggio emblematico, la rappresentazione di una grande categoria di donne
della nostra società, emancipate e libere quanto le altre, come le altre libere
di fare l’amore con chi vogliono, ma che per loro destino, cioè per una sorta di
peccato originale di nuovo conio, tutti o quasi possono sbattere e poi buttare.
A lungo
prestanome e prestapersona, ora prova a ribellarsi, come se bastasse la
ribellione per mutare la propria condizione sociale e il proprio destino, e
poter nutrire così di nuovo i propri sogni.
Senza
saperlo, come lei e come lei in viaggio, c’è un altro che grida nel deserto,
pardon, che brontola sulla medesima autostrada, spremendo il massimo della
velocità possibile dalla sua vecchia automobile.
A
differenza di lei, Gino, apparentemente, è titolare del proprio destino. Ma
anche lui ha una sorta di peccato originale da scontare: tanti anni prima è
venuto a Milano dalla Puglia, ottenendo un passaggio su un camion che portava
frutta all’ortomercato.
Ha dovuto
mettere tappeti agli angoli delle strade, e poi esercitare tanti altri mestieri
sempre più precari, anche se man mano sempre più elevati.
In queste
condizioni ha messo su casa, ha continuato a studiare, s’è sposato con amore ed
entusiasmo, ha fatto sacrifici.
Ma gli
amori si logorano da soli, di per sé: figuriamoci se sottoposti all’usura delle
incertezze giovanili e, soprattutto, di quelle economiche.
Così, Gino
è ancora uno sradicato, come lo è stato al suo arrivo nella metropoli, senza una
famiglia, senza un punto di riferimento.
Ora torna
alla Puglia originaria, all’aria nativa, alla terra con cui ha confidenza per
diritto naturale essendone figlio, ma per lui, e per l’enorme categoria di
persone di cui egli è un emblema, cioè per le persone che hanno dovuto
abbandonare la terra d’origine, in Puglia non c’è più posto.
Eppure,
anche lui ha diritto ai sogni.
Come il suo
amico Cosimino, che rappresenta invece quelli che non sono emigrati e sussistono
nella terra d’origine, come uccelli che stanno appollaiati un po’ sul pero e un
po’ sul melo. Quelli come lui sono una sorta d’eccedenza, che non si sa dove
mettere a dimora.
Però
rimangono spalancate le porte del contrabbando, degli intrallazzi, dei nuovi
mestieri e delle nuove imprese da inventare: si può cascare nell’illegalità e
negli intrighi della malavita, si può fallire restando puliti o segnati e si può
anche far fortuna, ma sempre per vie rischiose e avventurose.
Ma altre
vie per tanti altri si sono nel frattempo aperte.
Dopo lo
sfascio dei paesi ex comunisti, dopo che nei continenti africano ed asiatico si
è diffusa la voce che nella ricca Europa si può sempre sopravvivere in qualche
modo, in moltissimi, esattamente come gli uccelli e i pesci che non conoscono
confini geografici, approdano alle nostre coste, o penetrano via terra nei
nostri confini.
E questi sì
che sono sradicati per davvero!
Questi sono
come gli animali del bosco che ogni mattina devono preoccuparsi di come sfamarsi
durante il giorno, e finito il giorno, di dove rifugiarsi di notte.
Anzi, il
paragone con gli animali del bosco è troppo gentile, quasi bucolico, perché le
bestie, ancora quanto feroci, sono sempre innocenti. Gli esseri umani, invece,
di tutte le razze e latitudini, non sono mai innocenti, essendo la ragione il
loro privilegio, ma anche la loro dannazione. E siccome non hanno l’ innocenza
delle bestie, tendono a ripetere le loro categorie e scale sociali, dal
miserabile che farebbe tutto per un’annusata, ai grandi capitali sporchi che
devono trovare il modo di entrare nella società legittima ( e lo trovano sempre:
pecunia non olet ).
Per
raccontare di tutto questo, Giuseppe Puppo usa il linguaggio.
Attenzione,
ho detto il “linguaggio”, e non soltanto la lingua disciplinata. Il linguaggio
che si fa suono, odore e forma delle cose, che suscita e trasmette l’emozione
del mondo.
Un
linguaggio adoperato da Puppo con apparente naivite e spontaneità, come se
avesse registrato il fragore dei motori, il chiasso dei bar, il frastuono delle
città, il chiacchiericcio e il silenzio degli innamorati, le voce del mare o
delle campagne.
La vita
diventa così un brulichio indefesso, una fantasmagoria di volti, di voci, di
personaggi, di paesaggi e di ambienti, una sorta di eterno scialo, “vano più che
crudele”.
La “fiera”
della gente che bazzica i bar del lungomare e le strade della Puglia sembrano
descritti con i ritmi delle canzoni di questi anni turbolenti e selvaggi.
Ma allo
stesso modo, se pur per un’altra abilità stilistica, che troveremo dispiegata,
nella molteplicità di tecniche narrative, in tutta la sua efficacia, io, come
credo capiterà a tutti i lettori di “La notte il cielo è rosso”, non
dimenticherò mai i giornalisti e le giornaliste, il vicesindaco, il maresciallo
dei carabinieri e i magistrati, che a Milano e dintorni affollano le ultime
pagine del romanzo.
In tanta
violenza diffusa e in tanto frastuono, che il linguaggio, radiofonico e
cinematografico, e lo stile, lutulento, sanno evocare quasi onomatopeicamente,
c’erano sogni di Loredana e di Gino; soprattutto, nel cielo che di notte è
rosso, per chi dalla violenza e dal frastuono dei giorni nostri è stravolto e
non sa, non capisce più nulla, c’era la loro disperata, romantica capacità di
sognare ancora.
Loredana e
Gino sembravano come pelle bruciata, sulla quale non sarebbero potuti più
crescere i peli, e invece…Sulle acque fangose delle loro esperienze è fiorito il
loto. Cioè un amore, bello e disperato, precario e tragico, come la vita dei
suoi protagonisti.
Teodoro
Giùttari
Todariana
Editrice/ Eura press, Milano
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